Negli anni di lutto per la morte del supporto fonografico, il mio pensiero più affettuoso va all’EP. Di tutte le fogge discografiche il più attraente, elegante, fascinoso, snob, sufficiente, ambiguo, meticcio, bastardo, capriccioso, appetitoso, e oh! so indie. Nel lungo rapporto tra singolo e album, l’EP è da sempre il vertice del triangolo amoroso. Un amore che è stato corpo e passione, visto che presumeva supporti fisici, mentre adesso è un sentire praticamente platonico.
Nessuno sa cosa sia davvero l’EP, anche se riusciresti a distinguerlo da un classico album o da un singolo. Nessuno sa quanto debba durare un disco per essere definito “Extended Play”, come da antica definizione. Un formato a metà tra il 45 giri e il 33 giri, troppo lungo per essere un singolo e troppo corto per essere un album. Minimo 4 canzoni, massimo 8, tra i venti minuti e la mezz’ora, ma ci sono differenti scuole di pensiero. Poi i cd hanno complicato le cose: alcune band pubblicavano singoli con 4 tracce, la canzone da promuovere più tre lati B; intanto i cantautori facevano album piuttosto corti, anche di 7 o 8 pezzi. Eppure nessuno di questi era un EP. Ma allora cosa diavolo è l’EP? Nessuno sa cosa sia davvero l’EP.
L’EP, semplicemente, è quando ti dicono che è un EP.
Quando l’artista ti dice che ha l’esigenza, l’urgenza anzi, di fare uscire proprio quei pezzi perché fotografa perfettamente una tappa del suo percorso, un periodo della sua vita, o vai a sapere cosa diavolo. Una manciata di canzoni, solo quelle lì, non se la sente di aggiungerne altre, perché sono uscite all’improvviso e oh! così in fretta, e ha ritenuto giusto fermare fedelmente quel flusso di ispirazione.
L’EP vuol dire anche troppa voglia e pochi soldi. Una giovane band che ha bisogno di qualcosa in mano, di dire ho fatto questo, lo porto in giro, lo suono nei concerti di mezz’ora in apertura al gruppone di turno. Una promessa, una giovinezza veloce e sudata, inseguendo il sogno dell’album pubblicato dall’etichetta col nome giusto, col giro giusto.
Ma a volte appare anche l’EP inutile, quello con le canzoni che conosci già ma che sono riarrangiate, suonate in una versione più deludente di quella classica, magari accompagnate da remix di altri pezzi, o le cover, i live ecc, insomma un oggetto per i fan, un esemplare per collezionisti, tipo un francobollo emesso dalla Repubblica di San Marino.
È evidente che il tipo che mi piace di meno è quest’ultimo, quello inutile. E sembrerebbe che il mio preferito sia il secondo, quello della band esordiente che si sbatte. Eppure non è così, al primo posto metto il primo, quello dell’urgenza, che non è vera urgenza ma capriccio, licenza, sghiribizzo, pretesa, compiacimento, velleità artistica talvolta riuscita talvolta no. Anche un mucchietto di scarti non compresi nell’album può diventare un EP da amare. Questa per me è l’autentica EPness. Ancora meglio se presentata come fiera del lusso: un packaging pretenzioso, un prezzo comunque esoso, una rilevanza artistica trascurabile, un immeritato irresistibile fascino.
Ma tanto tutto questo non c’è quasi più. L’EP fisico morirà presto. E anche nella sua morte troverà una via mediana tra il singolo e l’album. Il cd singolo non esiste più da chissà quanti anni, il cd album sopravvivrà per tanto tempo pur se a stento. A metà c’è l’EP, che dura ancora, ma presto non avrà più senso stamparlo. E anche quello virtuale non avrà più ragion d’essere, visto che presto il mondo funzionerà che saranno pubblicate solo le canzoni sciolte.
Ringrazio i tanti che ho amato. Tra questi, Magical Mystery Tour dei Beatles, che ha formato il mio sentimento dell’EP. My Iron Lung dei Radiohead, tesoro ricordo della mia prima visita a Londra. Lies dei Guns N’Roses, un bipolare doppio EP? Music For Nurses degli Oceansize, la Manchester che guarda oltre Oceano. Jar Of Flies degli Alice In Chains, il vero settebello di questo mazzo. L’ultimo è Weed Garden di Iron & Wine che sto ascoltando in questi giorni e che mi ha fatto pensare all’eleganza dell’EP. Poi in Italia tutti quelli dei Verdena, dei Marlene Kuntz, La Piazza dei Ministri, 14-19 di Paolo Benvegnù, e tutti quelli che sto dimenticando per superficialità o distrazione o irriconoscenza.
Insomma, l’EP non è virtù che sta nel mezzo, o una medaglia d’argento che vale più del bronzo e meno dell’oro.
L’EP è la Coppa delle Coppe, che non è né la Coppa dei Campioni né la Coppa Uefa. (O almeno, era.) Tutto un altro fascino. Tutta un’altra epoca. Non so se è chiaro. E comunque tutto ciò era solo per fotografare un’urgenza, un flusso d’ispirazione; questo stesso articolo è da considerarsi un EP.
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E poi ci sono 10 cose che mi danno fastidio dei cd.
Quanto amore per gli Ep, un formato che mi ha sempre affascinato!
condivido 🙂
Bellissimo! Mi hai fatto scendere una lacrima…
È bello anche piangere, con gli ep!
C’è stato un periodo in cui non so se per giustificare il prezzo del cd o per sfruttarne tutta la durata si facevano questi dischi che era come se già contenessero i futuri extra e bonus ed era dura arrivare alla fine. L’esempio che faccio sempre è Fatboy Slim: vedevi un video divertente di 3 minuti e poi già lo stesso pezzo sull’album non sembrava più la stessa cosa ed era troppo lungo. Quando trovo dischi di 30 minuti sono contento.
Fatboy Slim… mi ricordo il video di Praise You quanto ci hanno martellato. Era così idiota che non potevi nemmeno odiarlo
Ah, ma quella ripresa era una vera compagnia di ballo. Checché ne dica il diretto interessato, molto meglio gli Housemartins.
[…] geniale), che leggo sempre con interesse, Paolo Plinio ha scritto un bellissimo articolo sull’Ep (leggetelo qui, subito!). Sì, quel formato che sembrerebbe una via di mezzo tra il singolo e l’album ma che brilla di […]
[…] con una domanda che mi autopongo: Perché Extended Play? Perché, come dice bene anche MySpiace, l’EP è il miglior formato! In ogni caso, il link adesso lo sapete. Abbiamo anche una pagina […]