Temple of the dog Mother love bone
Anni 90 Pop Rock

Supergruppi & gruppi super: Temple of the Dog & Mother Love Bone

Secondo me c’è un grunge bias per cui oggi, trent’anni dopo, diamo per scontato che certe personalità del grunge americano fossero delle specie di divinità, eroi omerici, cristi benedetti scesi in terra per rivoluzionare la musica rock. Per me va bene anche immaginarli così, ma penso che la mitizzazione di fondo ci faccia dimenticare che anche loro, durante la loro brillante carriera, sono stati degli illustri signori nessuno. 

Oggi i Temple of the Dog sono classificati come “supergruppo”, visto che univa membri di Soundgarden e Pearl Jam, ma all’epoca dell’uscita dell’album omonimo (1991) erano dei mezzi sconosciuti di Seattle che con la musica si barcamenavano come potevano. Chris Cornell e Matt Cameron suonavano nei Soundgarden che all’epoca facevano metallo pesante piuttosto indigesto agli stessi metallari. Stone Gossard e Jeff Ament con inguaribile ottimismo stavano mettendo su i Pearl Jam che era l’ennesimo progetto con cui speravano di svoltare (ma a vedere i precedenti non c’era da essere così ottimisti). Mike McCready era uno bravo-a-suonare, e Eddie Vedder era boh, un tizio nuovo da fuori, dice che fa il benzinaio, vediamo cosa sa fare. 

Direi quindi che non ci fosse molto studio commerciale, ma solo autentica emozione e trasporto e un pizzico di situazionismo in Chris Cornell quando propose a tutti i sopra citati di registrare un disco omaggio a un grande amico comune, Andrew Wood, cantante dei Mother Love Bone, morto pochi mesi prima di overdose. I Mother Love Bone erano i più incompiuti di tutti, visto che l’unico vero album, Apple (1990), uscì quando Wood era già morto e i suoi compagni di band già cercavano altre occupazioni (tra i compagni c’erano Stone Gossard e Jeff Ament: i Mother Love Bone erano appunto uno di quei ennesimi progetti con cui speravano di svoltare). 

Sei importanti sconosciuti del grunge-to-be pubblicavano il 16 aprile 1991 l’album Temple of the Dog, che in poco tempo tra tutti i classici del genere avrebbe conquistato un’aura solenne e un fascino raro. C’era l’idea di un gruppo temporaneo, iniziativa unica e irripetibile, la magia del qui e ora. C’era l’amicizia tra musicisti, la stima reciproca, lo stimolo a rincorrere insieme sogni e possibilità. C’era il dolore condiviso per la perdita di un personaggio amato, in un modo che gettava un’ombra cupa, la “perdita dell’innocenza della scena” come ha raccontato Chris Cornell. 

E c’erano soprattutto canzoni baciate dall’ispirazione del momentum, che sgorgano fuori subito, con la naturalezza che solo le occasioni speciali sanno far scaturire. In Say Hello 2 Heaven e Reach Down Cornell si rivolge direttamente all’amico scomparso, citando testi della sua band (Stargazer, Stardog Champion) e facendo riferimenti alla sua vita spezzata a 24 anni. Hunger Strike è l’evergreen della “scena” in cui appare per la prima volta al grande (?) pubblico la voce di Eddie Vedder. Call me a dog è il Cornell triste, terzinato, passivo aggressivo, che ho sempre trovato irresistibile. E così via, dieci canzoni per un dolente omaggio all’amico comune, rinnegando il suo dio (religione e oppio a volte si confondono) e trasformando un lutto in creatività, condivisione, e un commosso album-tributo che fa venire il nodo alla gola*. 

…E a questo punto, sentiti i Temple of the Dog, chiedi chi erano i Mother Love Bone. Io me lo chiesi eccome. Mi ero procurato una cassetta, registrata da un amico, il quale a sua volta se l’era fatta registrare da un amico dell’amico, e così via fino a chissà quanti gradi di separazione dalla fonte originale (cd? cassetta? vinile? Dopo tutti questi passaggi, impossibile capirlo).

Quel gruppo breve e incompiuto ha quindi ripreso a vivere nel mio mangiacassette esercitando un carisma imprevedibile: avevo trovato il più eccitante non-classico dell’hard rock e del glam, il più grande non-successo degli anni novanta. Ancora oggi ho bisogno di certe generose scariche di chitarre per ricordarmi che l’uomo sa volare. Ancora oggi ho bisogno di un canto sbruffone che mi inchiodi allo specchio, tra chi sono e chi sono anche. Andrew Wood, non-re scomparso in età da principe, contraddiceva il grunge nascente con una solare voglia di vivere, amare, mordere la mela. E perché no, semplicemente suonare, come nella sua ode universale alla musica The Man of Golden Words, dal cui testo Chris Cornell ha poi tratto il nome dei Temple of the Dog. 

Quel nastro magnetico dei Mother Love Bone (c’era dentro più o meno tutto quello che avevano fatto nella loro breve esistenza: l’ep Shine e l’album Apple) è diventato per me uno di quei dischi-che-devi-per-forza-avere-in-originale. Ho quindi cercato il cd, tra negozi e bancarelle e mercatini (parliamo di un periodo strano di interregno tra le cassette e i cd, tra gli anni 90 e gli anni zero). Alla fine l’ho trovato. Usato, frusto, sfatto, con il booklet che si sfaldava solo a guardarlo. La perfetta rappresentazione plastica di quanto l’avevo consumato: era come se fosse il mio personale, consumato retroattivamente dai ripetuti ascolti. 

Se tra le intenzioni dei Temple of the Dog c’era il far conoscere a più persone possibile la musica di Andrew Wood e dei Mother Love Bone, con me aveva funzionato eccome. 

* Non alla gola di Cornell, ovviamente, che spara acutacci da brividi. Quando giro su YouTube a vedere video tipo “I 20 goal più belli di Roberto Baggio”, “Top 10 Gianfranco Zola goals”, “I 10 assist più belli di Domenico Morfeo”, mi domando: perché non esiste una clip dedicata esclusivamente a “I 20 acuti più potenti di Chris Cornell”?

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Paolo Plinio Albera

Muovo i primi passi falsi nella musica scrivendo canzoni.
Trovo quindi la mia strada sbagliata nella scrittura e nella creatività.
In poco tempo faccio passi indietro da gigante, e oggi ho un blog: il MySpiace.

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2 commenti

  1. Scusa, ma dato che ti piace il tennis, non sarebbe meglio le 20 seconde palle messe sotto al pantaloncino o al gonnellino dalle tenniste?

    1. Sarebbe ancora meglio

Rispondi

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