Spoken word, letteralmente, è la “parola parlata”, bisticcio tautologico per definire quel genere musicale che non ti sentiresti di considerare rap o crossover o freestyle o cantautorato, ma nemmeno teatro o situazionismo o checchessia. Lo spoken word è semplicemente: parlare parole, con eventuale musica sotto.
(Ho avuto i miei anni di spoken word. Anni semplici e dolci, in cui ero il gregario, quello che suonava la musica sotto. La mia chitarra elettrica improvvisava arpeggi e rumori, al servizio del poeta che leggeva le sue poesie. I poeti che fanno spoken word sono corpi impazienti, piante rampicanti, ferite che non esauriscono mai il sangue. Incidono poesie con le unghie. Si esibiscono ovunque, l’unica condizione è avere di fronte le facce della gente. Lo stesso passaggio di testo, ogni volta, lo enfatizzano un po’ più forte. I versi su cui puntano di più vengono poco capiti, i versi su cui puntano meno sono quelli che colpiscono le persone. Hanno bisogno di una musica di sfondo, nessuna in particolare: il mio lavoro poteva farlo chiunque altro. Non sono i soldi, ma i rapporti, le amicizie, le simpatie a naso, la condivisione di pezzi di vita. È arte genuina e senza intermediari, che fa quello che deve fare, fallire, e continuamente, ma scavando piccoli rifugi dal mondo, nel mondo.)
Le parole, opere e “connessioni” di Kae Tempest mi hanno dato modo di ricordare, nel mio piccolo, una parentesi di vita. Ma soprattutto di conoscere musica che – negli ultimi tre mesi – mi è entrata dentro per rimanere. È l’artista cui ho dedicato più tempo in questo inizio anno, se sommo l’ascolto di un disco, la lettura di un libro, la visione di un concerto.
Ricapitolando,
Spoken word o rap o whatever
Aprile, esce The Line is a Curve di Kae Tempest, artista londinese che non conoscevo prima, ma diventa presto uno dei miei ascolti ricorrenti della primavera. All’inizio mi sembra rap, forse perché l’ho letto da qualche parte, o più probabilmente perché mi viene ancora difficile pensare allo spoken word come qualcosa che viene registrato su disco per rimanere fisso così, senza che la voce ti enfatizzi un po’ più forte lo stesso passaggio ogni volta, per dire. Oppure, da un altro punto di vista, Kae Tempest è lo spoken word che ce l’ha fatta. Si dedica alla musica, al teatro, alla poesia, portando a termine diversi progetti come qualsiasi poeta non saprebbe fare. Per incidere The Line is a Curve fa un esperimento interessante e strano: in ciascuna sessione in studio canta e scandisce parole davanti a persone di differenti generazioni. Giovani, coetanei, vecchi, alcuni conosciuti altri sconosciuti, alternativamente, per vedere cosa succede, riascoltare come cambia tono e intensità. Un album di autoanalisi a partire già dalla registrazione, e che in versi e rime tende la mano ad anime inespresse e inconfesse. Ok va bene anche “rap”, se può essere oggi qualcosa di asciutto, essenziale, esistenziale. Può piacere anche a chi segue cose più sociali e meno interiori come gli Sleaford Mods. Chi ama i Fontaines D.C. è già con me in piedi sul divano per il featuring con Grian Chatten. Chi né gli uni né gli altri, scopre la voce da brividi di un’altra ospite illustre, Lianne La Havas. In ogni caso, non so se avete presente quando si dice un-album-che-cresce-con-gli-ascolti, ecco, questo con gli ascolti invece di crescere diventa sempre più “vicino”.
Kae Tempest tra poesia e “connessioni”
Maggio, Salone del Libro, vagabondando allo stand della casa editrice E/O trovo con sorpresa un suo libro. Sia benedetta la mia ignoranza: non sapere le cose mi consente di fare scoperte straordinarie. Lo prendo, curiosissimo. Connessioni è un saggio sulla creatività che non insegna la creatività, ma parla di “connessione”: «la connessione è la sensazione di essere ancorati nel presente. Essere completamente immersi in qualsiasi cosa ci tiene occupati, prestare piena attenzione ai dettagli dell’esperienza. Ed è caratterizzata dalla consapevolezza della nostra scarsa rilevanza nello schema generale delle cose. La sensazione di essere posizionati in modo assoluto. Proprio qui. E non importa se quel “proprio qui” sia un punto agitato o calmo, allegro o doloroso». Uno stato fertile di ispirazione che non è riservato agli “artisti” o ai creativi, ma che prova chiunque, nei momenti migliori, o peggiori, o intensi, o inaspettati della propria vita. Il libro è breve e illuminante, ed è uno di quelli perfettamente adatti da chi si occupa di qualunque tipo di di atto artistico, perché gli sforzi, i tentativi, le incertezze, le gioie e i fallimenti sono sempre quelli, fanno parte di un territorio comune a qualunque disciplina. Si serve di citazioni di William Blake e concetti di Carl Jung, e soprattutto trae ispirazione dalla propria autobiografia fatta di esibizioni ovunque, su palchi che non sono palchi, anche più di uno a sera, negli anni in cui vivi più fuori casa che dentro, nel veloce e caotico “spoken world” dello spoken word.
Il concerto al Torino Jazz Festival
Giugno, concerto al Torino Jazz Festival, data unica italiana. All’ingresso della location (O.G.R., Officine Grandi Riparazioni) ci viene dato un libretto con i testi di Kae Tempest tradotti, un’ottima idea. Prima di iniziare a cantare si dispiace che il concerto sia tutto in inglese, e non in italiano, ma ci chiede di “sentire” le parole che parla. Inizia con i pezzi dell’ultimo album, poi continua con alcuni tratti dai precedenti (soprattutto The book of traps and lessons che è il più “spoken word” di tutti). La sua presenza fisica è un sole interiore, è un viso di cui ti fidi, è la prima persona che conosci quando arrivi in una città diversa*. È l’antitesi del rap di massa come lo conosciamo oggi. È un’identità di genere non binario che si esibisce nel giorno del Pride all’interno di un festival di musica di solito differente, per fortuna la musica è un’arte fatta d’aria, e la cosa bella dei concerti è che trovi una “connessione” e le differenze volano via, i muretti cadono giù, e ti fanno quasi sorridere quelli che avevi letto che avevano detto che questo non va bene e quello non si fa. Sono felice di aver incontrato persone amiche dopo anni di black down e esserci salutati come se nel frattempo non fosse successo nulla. Sono felice che sia successo proprio in questa occasione, riprendendo il filo delle chiacchiere parlando del concerto appena visto. Kae Tempest ama le facce della gente, la gente non può non amare la faccia di Kae Tempest.
* Lo so, è un’immagine un po’ strampalata, ma non so se avete presente la prima persona che conoscete in una situazione nuova, per qualche tempo diventa una specie di guida, di base, di rifugio, mentre impari a trovare il tuo equilibrio e la tua autonomia… vabè niente dai magari un’altra vol
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Se facessi spoken word canterei la frase delle magliette del MySpiace.
In fondo anche la poesia greca e latina se letta metricamente era spoken world.
Il problema è per quelli che non capiscono la lingua (e l’inglese parlato, tanto più se infarcito di slang come presumo, penso sia difficile pure per chi lo ha studiato per iscritto, io nemmeno quello), e così a me piaceva Ursula Rucker per la musica…
Wikipedia è d’accordo con te sugli antichi greci. Per la questione lingua devo dire che il TJF che ci ha dato il libretto coi testi tradotti, in stile libretto operistico, ha fatto una bella cosa. (Poi non so se nel disco ci sono i testi, non ce l’ho a casa)
Ci sono alla bisogna i testi su internet e Google traslate che dubito conosca modi di dire ed espressioni gergali.
Non fate leggere questo articolo a Stefano I. Bianchi, per carità!
Ahaha che figura incredibilmente di m