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Scrivere punk

Ho letto un libro che ha un capitolo intitolato “Scrivere è la cosa più punk che possa capitare”. Il libro è Scrittura ribelle. Anti manuale di scrittura creativa, di Ella Marciello, ed. Hoepli. Non penso di essere un tipo molto punk, molto anti, molto ribelle, ma se non fosse stato per le parole punk, anti, ribelle, probabilmente non l’avrei letto.

L’ho comprato una sera a Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, in una presentazione con l’autrice (direttrice creativa, copywriter, communication strategist). L’ho iniziato subito e concluso presto; al terzo capitolo (quello del punk) ero sicuro che ne avrei scritto qualcosa. Non tanto per per fare consigli per gli acquisti, ma perché egoisticamente scrivere un articolo mi aiuta a concludere la mia sequenza predatoria sul libro (desiderio, acquisto, lettura, articolo, depressione post-articolo*) e a tornare sui passi in cui mi rispecchio, per fissare meglio in testa le pagine più importanti.

Anzi se devo dire la verità – chiedo pardon – l’articolo è anche una bieca scusa per scrivere di me, e del piccolo particolare che nella vita faccio il copywriter. E del fatto che mi sento molto meno “puro” rispetto a quando scrivevo semplicemente per passione. Oggi sono più bravo a scrivere (le mie prime cose erano patetiche, odio rileggerle) ma non quanto mi aspetto di dover essere. Forse, mentre divento sempre più bravo, lassù in soffitta c’è un ritratto di me quando non ero ancora un copywriter, che marcisce e ammuffisce e imbruttisce ogni volta che scrivo un nuovo articolo Seo o post con obiettivo engagement.

(Il fatto è che è più forte di me, a me scrivere piace. Forse mi piace la sensazione di potere che viene da un testo fatto bene. Mi piace far cambiare l’espressione al viso che mi legge, scolpire la frase a effetto. Mi piace incantare gli algoritmi, farli danzare alla mia musica anche se in realtà è il contrario. Mi piace farti cliccare qui. Sono ben intenzionato a essere sincero, ma sono anche attratto dal lato oscuro della forza. Ma lasciamo stare tutto questo – anche perché sembra che capiti sempre, e invece.)

Conosco qualcuno che fa il mio lavoro, non troppi e non troppo personalmente ma sono sicuro che condividiamo queste semplici cose. Compreso il particolare di non sentirci affatto in cuor nostro molto punk, anti, ribelli. 

Eppure avremmo (avrei) tonnellate di buone ragioni per sentirci punk. Qualunque cosa voglia dire “punk” – non è il caso di fare qui la storia della musica – ci siamo capiti. Ognuno ha dentro la propria urgenza che spinge sul tappo e non viene fuori. Ognuno ha la propria ribellione che anche oggi non si trasforma in rivoluzione. Ognuno ha qualcosa che deve distruggere per riuscire a stare meglio.

Ho i miei problemi, come tutti, ma i miei sono più importanti perché sono i miei. Sarebbe inutile nascondere la mia frustrazione per non arrivare a certi livelli di scrittura, forse di pubblico e di coinvolgimento, sicuramente di realizzazione economica. Nella vita quotidiana ho certe mie aree di rabbia, zone rosse in cui insicurezze d’infanzia, di relazioni e di insoddisfazione personale hanno condotto a un’estremizzazione di certi miei pensieri e paure. Non so nascondere le insicurezze, peggio, faccio la figura di quello che cerca di nasconderle ma non ci riesce. Come tutti ho molta ansia di prestazione, ma anche ansia e basta, senza prestazione. E come non dire della perenne timidezza, che forse non a caso mi ha condotto a trovare online la mia via preferita di comunicazione. Ho totalizzato fallimenti nella musica, ho realizzato all’età di trent’anni di non essere un genio, non essere un artista, non essere una persona dotata di capacità innate. “Una di quelle persone cui le cose riescono subito”, ecco, questo non sono io. Un musicista senza disco, uno scrittore senza libro. Ho appena detto cose che non si possono dire, me ne pentirò.

Sfruttare nella scrittura queste emozioni che brutalmente ho ammesso, mi porterebbe al disordine, all’imbarazzo, all’autodistruzione? O a esprimermi e relazionarmi con più immediatezza, profondità, chiarezza? Mi ricordo una sentenza che ho letto da bambino su una locandina di un film e che per qualche strano motivo non ho mai dimenticato: “se vuoi il massimo, devi essere pronto a pagare il massimo.”**

Tutte queste riflessioni nascono – si era capito – dopo la lettura di Scrittura ribelle, che mi ha ricordato il valore inestimabile di tante emozioni inespresse, represse, compresse (insomma, -presse), che corrispondono ad altrettante storie potenziali pure e preziose come l’acqua. Mi ha aiutato a riconciliarmi con una parte di me che non gira bene. Mi ha restituito una crush per la scrittura che non provavo da tempo. Mi ha portato alla sorgente dello scrivere, là dove si ascolta, si osserva, si riflette, ma anche là dove si prova rabbia, frustrazione, impazienza di sfondare un recinto e infrangere una regola, impotenza di fronte al genio e al talento che non avrai mai, voglia di ribellione ai tradizionalmente. Insomma, è un libro che va al punk della scrittura. Detto così sembra una cosa molto sovversiva, ma è tutta natura. È un manuale di “scrittura creativa” in cui penso possa rispecchiarsi chiunque anche se non si sente scrittore: per assurdo, in tutto il libro si potrebbe sostituire la parola “scrivere” con la parola “suonare”, o “fotografare”, o altri atti di comunicazione, e avrebbe perfettamente senso lo stesso.

“Ciò che non ci uccide ci fa scrivere cose bellissime (forse)” è il titolo dell’ultimo capitolo. Bastava questa frase per sintetizzare, al posto di tutto l’articolo che ora è arrivato alla sigla di chiusura. È bello che la merda dentro di noi possa diventare concime, anche senza scomodare i triti e ritriti diamanti e fior di De André. È bello che più vicina è la sorgente, più pura scorre l’acqua, per scomodare il caro Damon Albarn che a sua volta ha scomodato John Clare. Non sarà punk, ma finire tutto questo con un pezzo punk mi sembrerebbe poco punk. 

* La depressione post-articolo è quando pubblichi il tuo articolo e ti accorgi che sostanzialmente non succede niente. Lo leggono poche persone rispetto a quante ti aspettavi. Hai la sensazione che a leggerlo siano i soliti quattro che leggono sempre le tue cose. Nessuno clicca qui. Le tue vanity metrics (like, follow) restano al palo. E quel che è peggio nessuna gratificazione economica susseguirà a questa pubblicazione. Ti chiedi cosa potresti (anche stavolta) aver sbagliato, ti assale la sensazione di aver (anche stavolta) sprecato tanto tempo per niente. È questa, ineluttabile, la depressione post-articolo. 

** Point Break – Punto di rottura (1991), diretto da Kathryn Bigelow, con Patrick Swayze, Keanu Reeves, e persino un’apparizione di Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers. Mai visto.

Su Ista:
Ella Marciello
MySpiace

Paolo Plinio Albera

Muovo i primi passi falsi nella musica scrivendo canzoni.
Trovo quindi la mia strada sbagliata nella scrittura e nella creatività.
In poco tempo faccio passi indietro da gigante, e oggi ho un blog: il MySpiace.

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2 commenti

  1. Forse meglio questa reazione piuttosto che pensare di essere un genio incompreso.
    Io invece mi diverto a scrivere e il post lo metto là, può darsi che interessi a qualcuno che può arrivarci casualmente. Incredibile, ma anche su vecchi post sul ciclismo c’è qualcuno che ci clicca (e non ci sono immagini di donne nude!). A te non capita?

    1. Sì mi capita, in particolare con un articolo vecchissimo di cui mi vergogno e che è rimasto incastrato in cima su google in qualche ricerca ricorrente. Ho intenzione di togliere da qui un sacco di roba brutta e inutile. So già che in realtà non lo farò, perché sono buono e sentimentale

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