Mi chiamano “El chino” per i miei occhietti da cinese. Mi va bene così perché odierei essere chiamato per esempio “el castoro” per i dentoni che mi ritrovo. Tiro delle punizioni micidiali con il piede mancino. “Man chino”. Ah ah.
Ah ah un cazzo. Sono stanco. Neanche trent’anni, carriera fulminante, già zero voglia di continuare a giocare a calcio, anche se per i tifosi dell’Inter sono un idolo. Un infortunio, magari, sarebbe la mia fortuna.
Perché mi trovo nel Vallo di Diano? Mia madre è devota a San Cono, venerato anche da noi in Uruguay. E’ venuta a trovarmi in Italia e mi ha portato alla festa del santo a Teggiano, provincia di Salerno. Non è facile stare in mezzo a tutta questa gente che mi riconosce e mi chiede autografi e vuole una foto con “el chino”, quindi ho messo gli occhiali scuri per nascondere i miei occhietti da cinese. Ma mi riconoscono lo stesso, per i dentoni.
Finita la festa, mia madre va a dormire in albergo, io rimango fuori a fare un giro. La folla comincia a diradarsi, le bancarelle sono ormai smontate, tutti tornano a casa e io posso finalmente togliere gli occhiali scuri. E’ metà agosto ma da questo preciso momento si respirerà quel vago senso di malinconia della fine dell’estate. E’ la fine soprattutto della mia estate: domani pomeriggio devo ripartire per Milano, inizia il ritiro estivo con l’Inter. Cerco di non pensarci ma è un’ossessione, non riesco a staccare la testa dal maledetto calcio. Sono stanco. Il presidente mi chiama tutti i giorni, mi controlla, paga spie e puttane per sapere cosa faccio e dove vado e chi incontro, ormai non mi fido più di nessuno. Stavolta però ho voglia di lasciarmi andare, ho voglia ancora di un bicchiere. A Teggiano ci sono molte più chiese che bar, ma i bar non chiudono mai e anche se chiudono appena mi vedono riaprono (sono Recoba). Bevendo un amaro conosco alcuni ragazzi del paese, sono simpatici, si offrono di mostrarmi la zona se rimarrò per altri giorni. Ringrazio ma rispondo che domani devo tornare a Milano per ricominciare gli allenamenti… e appena mi chiedono dell’Inter mi irrigidisco, vado nel pallone (in tutti i sensi) e mi sento come fossi accerchiato dai giornalisti sportivi. La mia ossessione è tornata all’attacco, cerco di razionalizzare ma la mia serata finisce qui.
Torno in albergo ma non riesco a dormire. Ma sono stanco. Ma non riesco a dormire. Ma sono stanco.
Ma non riesco a dormire, non riesco a chiudere un occhio, anche se i miei occhietti cinesi sono di natura mezzi chiusi. All’alba esco, scendo a piedi a valle dalla strada principale e poi da stradine secondarie nel tentativo disperato di perdermi. Arrivato sulla sponda del fiume Tanagro, mi stendo e ricordo alcuni luoghi di queste poche giornate passate qui, il dedalo di saliscendi di Sassano, l’acqua sorgiva in cui è immerso un battistero a Padula, i sentieri tra i ruderi abbandonati sopra Sala Consilina… ero quasi riuscito a perdermi, ero quasi riuscito a chiudere gli occhi.
E perdo lo sguardo tutto intorno a me, aspettando che i raggi di sole scendano dalle creste fino ai piedi delle montagne. Il Vallo di Diano sembra una grande piazza, con le case appoggiate sulle montagne disposte tutte intorno. Davanti al monte Cervati una piccola nuvola sta sospesa in aria, come un palloncino mezzo sgonfio. Mezzo sgonfio sono anch’io, non come un palloncino ma come un pallone. E torna la mia ossessione: quella che mi sembrava una piazza ora mi sembra uno stadio, con paesi e case a formare gli spalti intorno a me, io da solo in mezzo a questo campo perfettamente piatto, che sono stanco, e supplico il mister di sostituirmi. O un infortunio, magari, che fortuna.
Mi addormento su un prato. Mi sveglia il fastidio del cellulare in tasca. Dieci chiamate non risposte. Cinque mia madre, quattro il presidente, una la modella moldava con cui scopavo alle feste prima di partire ma forse è pagata dal presidente. Li ignoro. Il sole è alto, chiamo uno degli amici della sera prima. Passano a prendermi, mi portano in un piccolo circolo, nascosto in una stradina secondaria, sul muro c’è scritto semplicemente “Zio Cicco”. Zio Cicco ha viaggiato per una vita, dice che ha dei figli in Argentina, chissà se senza saperlo ci siamo mai incrociati, Buenos Aires è vicina a dove sono nato io. Io e gli amici entriamo, ci sono due campi di bocce, iniziamo una partita. A minuti devo partire per prendere l’aereo per Milano, ma ho la nausea del calcio, non voglio tornare, non ora. Sono stanco. Quasi quasi… lo faccio:
Perdo l’aereo.
Spengo il cellulare.
Continuo la partita a bocce.
Tra un tiro e l’altro mi viene da tocchettare le bocce con i piedi, abbozzare finte e dribbling. Mi passerà.
oh plinio, era un vita che non passavo di qui, poi – non so neanche bene perché – m’è venuto in mente e ho digitato per la prima volta “myspiace” su google. non ce l’ho nei preferiti, mea culpa, rimedio ora. ovviamente google non ne voleva sapere e ha deciso che stavo cercando my space. però poi mi ha dato comunque la possibilità – bontà sua – di trovare il tuo blog. ed ecco che come al solito mi stupisci. e un po’ mi commuovi. ora giro subito questa storia ad un amico. si chiama ermanno, fa il calciatore (e il giornalista), ed è nato in cilento, non lontano dal vallo. gli piacerà e un giorno vi farò conoscere. a presto. giuliano
grande! (in tutto ciò c’è un fondo di verità, recoba è stato davvero nel vallo di diano per la festa del patrono). ciao julian a presto!