Non c’è due senza te Dente
Pop Rock

Non c’è fase due senza te

Aimez-vous Dente?

Se ti sei sempre rispecchiato nello statement scelto dal cantante per battezzare il suo sito – AMODENTE.IT – allora queste chiacchiere potrebbero interessarti. Ma anche se non lo ami, beh, Dente è uno di quelli a cui un clic non lo si nega mai.

La prendo alla larga, come si usa fare negli articoli di musica quando si vuole parlare di sé stessi con la scusa di parlare dell’artista. Si può immaginare la cronologia dell’indie italiano come una specie di venerdì lavorativo. La prima parte della giornata, dal mattino e via via verso il pomeriggio, è tutta fatta di difficoltà, preoccupazioni, noie, precarietà, cazzi amari, disillusione. La seconda parte della giornata, cioè dalla sera alla nottata, parte il via libera all’evasione, alla leggerezza, alle storielle, alla dissoluzione però con autoassoluzione. In questa cronologia, l’epoca di Dente segna l’orario dello switch fra queste due parti: l’aperitivo. 

Quell’ora dell’aperitivo, cioè la seconda metà degli anni zero, era da considerarsi anche l’ora dell’aperitivo della mia vita, che però viaggia in senso contrario (prima la leggerezza, poi la disillusione ecc).

Il giorno in cui davvero vengo a conoscenza di Dente è in un’edizione del MEI a Faenza. Ricordo il Meeting Etichette Indipendenti come una macelleria di musica emergente, con centinaia di concerti di piccole band sotto maxi tendoni martellati dalla pioggia di novembre. Andavo al MEI per dare i miei demo alle etichette indipendenti, nella speranza di suscitare un chissà quale interesse in quale che sia di esse, magari proprio quella Jestrai che era la più famosa del momento, visto che era “l’etichetta della mamma dei Verdena”. 

Dalla Jestrai veniva anche Dente, ma ancora non lo sapevo. Sotto uno di questi tendoni c’era un suo concerto, nello spazio di mezzo palco (perché spesso i palchi erano divisi in due, in modo che la band successiva potesse predisporre i suoi strumenti – cosa che all’epoca mi sembrava accettabile ma ora rabbrividisco). 

L’unicità di Dente era, già allora, nel fascino dandy e decadente (decaDente, ops…) del personaggio. I testi zeppi di calembour erano una novità nella musica indie (nel tempo sarebbe poi rimasto un maestro insuperato, nemmeno da teste di serie dei giochi di parole come i ComaCose) e l’accompagnarsi alla chitarra da solo senza band era cosa un po’ di nicchia, visto che fino ad allora fare musica indipendente sottintendeva farlo in team di almeno tre-quattro persone. In caso contrario, si sarebbe incorsi nella categoria di “cantautore”, che era ancora avvolta da un’aura di sacralità (altro ragionamento che all’epoca mi sembrava accettabile ma che ora… vabbè lasciamo stare). 

Dente ci faceva sorridere, ma non di gioia, più che altro di cinismo. Dell’indie era il bambino birichino, pigro, fantasioso, bugiardo, perdigiorno, che la maestra avrebbe definito intelligente ma che non si applica. Bastarono sei-sette canzoni diluite in una mezz’oretta di sue chiacchiere egoriferite per impapocchiarmi e convincermi a recarmi al banchetto merch in fondo al tendone. 

Per pochi euro mi procurai i due album che esistevano all’epoca, Anice in bocca e Non c’è due senza te. Il primo era in una bustina di plastica minimale e economica, che al confronto i miei demo sembravano stampati dalla Sony Music. Il secondo era in una confezione più classica, con il jewel-case, ma comunque con il logo della Mousemen, che erano quelli che stampavano i cd facendoti il 10% di sconto se inserivi il loro logo – poco più in là c’era il loro stand se volevi più informazioni – beh, più ripenso a questi dettagli più mi rendo conto che all’epoca c’erano cose che passavano per accettabili ma ora se ci penso…

Tornando a Torino, in macchina con altri musicisti di altre band del tempo, ho messo su i cd di questo sconosciuto che mi aveva tanto colpito, come hai detto che si chiama? Dente. Erano vagamente irritati perché era robaccia inascoltabile, approssimativa, chi mai avrebbe preso sul serio un tizio così, con i suoi di-ri-di-dì, di-ri-di-dì? E poi quel suono scassato, che più che lo-fi era proprio fai-da-te, che al confronto i miei demo erano The Dark Side of the Moon, da chi pretendeva di essere ascoltato?

Ma quando ti fermavi negli autogrill della A14 e vedevi tutti i musicisti delle band emergenti che tornavano anch’essi dal MEI, vestiti del loro miglior peggior outfit, spiegazzati sotto la tracolla delle custodie economiche morbide per strumenti e pedaliere, dopo aver fatto il loro set di 3 canzoni davanti a tendoni semivuoti battuti dalla pioggia e dal frastuono proveniente dai tendoni adiacenti, allora nel loro affiatamento sfiatato vedevi la stanchezza di non aver ottenuto molto, e capivi che tirava un’aria diversa ormai. E se Dente era tra i semi-big del cartellone allora ti bastava tirare su il mignolo inumidito e intirizzito per capire dove il vento stava andando. I gruppi rock erano un uso che stava finendo, le band erano allo sbando, e persino se volevi conservare riferimenti di una presunta integrità e spessore dovevi venire a patti col fatto che il nome di cui si chiacchierava di più era quello di Le luci della centrale elettrica, che era uno che era da solo. 

La comodità di dormire in macchina, la semplicità del latte e del caffè, la casualità alla Festa dell’Unità, poi la genialità delle parole, ma non capisco come mai parliamo di tutto anche quello che non ci va, facciamo di tutto anche quello che non si fa, e quello che ti meriti: canzone di non amore, hey, hey…

Mi sorprendo oggi a buttare giù a memoria le prime parole dell’album. Le canzoni di non amore di Dente si appiccicavano da qualche parte della testa come aforismi snob, bohemien, effortless-chic, che avrebbero potuto fare la fortuna di tweet-star o poeti-instagram, se queste cazzate fossero già esistite all’epoca. “Non è poi la fine del mondo se non sei la fine del mondo”, continuava sardonico il discorso, tra apprezzamenti sulla moglie del suo amante e gocce d’acqua sulla faccia, fino alla canzone finale, Chiedo, che è un elenco di scuse per le più minime inezie – di lì a qualche anno chiedere “scusa” sarebbe diventato un cliché delle canzoni itpop, tanto che l’itpop potrebbe essere considerato l’indie che chiede scusa.

Da quella volta in poi ho visto Dente dal vivo un bel po’ di volte, accusando un misto di seduzione per il personaggio che sapeva creare di se stesso, e irritazione per la sconfitta dei miei schemi mentali da rock band gettati elegantemente nel cesso dallo zeitgeist del tempo. La R liquida di Manuel Agnelli era il passato, la R arrotata di Dente il presente. Ora che siamo nel futuro, e sono altri i cantautori indie che fanno i numeri, ripenso a Dente con un eguale misto di irritazione e seduzione: la prima è per aver aperto la strada agli odierni cantanti del nuovo pop carino, la seconda è perché lui era comunque di una classe superiore, di un estro imprevedibile, di un’autoironia dolente, indolente, elegante.

Non c’è due senza te poteva essere considerata la sua fase due, ma non proprio, visto che il primo album Anice in bocca (prodotto da Amerigo Verardi) era così ostico che più che fase uno sembrava la fase zero. Forse la sua fase due è quando ha smesso di registrare in cameretta e ha iniziato ad avere una band (in L’amore non è bello). Anzi forse la sua fase due è adesso che ha deciso di suonare il piano e rinunciare ai giochi di parole.

In ogni caso Non c’è due senza te era il titolo perfetto per la seconda opera di uno come lui: il gioco di parole, la situazione di coppia, l’eleganza di una bugia. Se mai un giorno uscisse un Best of di Dente, me lo immagino come il meglio dei suoi calembour, e “Non c’è due senza te” sarebbe uno dei greatest hits, forse addirittura il titolo. (Il gioco di parole che ho dato a questo articolo è indegno, anche perché allude al momento storico in cui sto scrivendo, ma era un modo affettuoso di salire sul carro dei vincitori.)

Vabbè con questo articolo come al solito non abbiamo risolto nulla (in perfetto stile canzoni di Dente). Mi sembra chiaro che la mia ambivalenza irritazione/seduzione si sia risolta a favore della seconda. E tutta questa chiacchierata si poteva ridurre a un solo concetto: in fondo è uno di quegli artisti, è uno di quegli album, per cui si possa dire che ci sia stato un “prima di” e un “dopo di”.

(Di-ri-di-dì, di-ri-di-dì)

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Paolo Plinio Albera

Muovo i primi passi falsi nella musica scrivendo canzoni.
Trovo quindi la mia strada sbagliata nella scrittura e nella creatività.
In poco tempo faccio passi indietro da gigante, e oggi ho un blog: il MySpiace.

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3 commenti

  1. Il titolo mi piace. Dente mi pare che fosse nel tributo ai Diaframma “il dono”.
    A proposito di invidia per i colleghi famosi ricordo sempre nel 1987 una mostra di originali di Hugo Pratt a Fuorigrotta, a vedere questi disegni sbianchettati o con correzioni incollate sopra perché il fumetto è quello riprodotto, a volte quasi solo macchie d’inchiostro, sono diventato un estimatore di Pratt più che con le letture già fatte, e invece c’era un indigeno che disprezzava proprio quello che io apprezzavo e se ne andò perché doveva consegnare i suoi fumetti, presumo a qualche rivistina locale.

    1. Probabilmente i Diaframma li ha ascoltati molto. In questo album c’è Canzone pop che fa
      “Dicono dei sentimenti
      Che siano simili ai fiori
      Infatti quelli finti
      Non diventano grandi mai.”
      Che secondo me è una mezza citazione di L’odore delle rose

  2. Preferisco nettamente “Baby Building”

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