Nine Lives è l’ultima vita degli Aerosmith, per come li ho vissuti io. Non è certo la loro ultima vita in assoluto, visto che sono uno dei gruppi più longevi di sempre: se i Rolling Stones morissero domani, andrebbero loro in vetta. Leggo ancora adesso che il cantante Steven Tyler salta e balla e talvolta casca per terra, oppure torna al suo paese d’origine in Calabria, oppure smentisce gli acciacchi che lo costringono ad annullare molti concerti, che certamente recupererà tutti con gli interessi.
Insomma gli Aerosmith sembrano immortali, e con i Rolling Stones condividono quella pacca beffarda di immortalità conquistata in barba a una vita di droghe e alcol e festini. Steven Tyler e Joe Perry, che nel secolo scorso venivano chiamati i “toxic twins”, sono sempre stati un po’ i Mick Jagger e Keith Richards americani, dai.
A proposito di Rolling Stones: nello stesso anno di Nine Lives (1997) gli inglesi pubblicano Bridges To Babylon. La copertina di entrambi i dischi è disegnata dall’artista Stefan Sagmeister. Eccole vicine vicine.
Per la cronaca, la copertina degli Aerosmith viene presto ritirata dal commercio e sostituita con un’altra. La causa è la vibrante protesta delle comunità hindu, che considerano un sacrilegio la figura del Dio Krishna disegnata con una testa di gatto.
Miao?!
Hardrockers di Boston
Cari Aerosmith, quando vi ho persi per strada? Dev’essere successo in seguito alla sbornia della canzone della colonna sonora del film Armageddon: “I don’t want to miss a thing”, in quanto a insistenza in radio e in tv, penso sia seconda nella storia solo a “My heart will go on” di Titanic.
Ma mai potrò dimenticare i pomeriggi liceali passati ad ascoltare il filotto di cassettine Permanent Vacation → Pump → Get A Grip → Nine Lives, e imitarne goffamente alla chitarra i riff più spacconi. Hardrockers di Boston, benvenuti nella mia cameretta in Via Boston.
Tutto inizia da bimbo guardando alla tv lo spot dell’Aperol con “Rag Doll”. Tutto continua nell’età della pubertà con la divina triade dei videoclip con la biondazza Alicia Silverstone (“Cryin“, “Crazy“, “Amazing“). E tutto si esaurisce nell’età pre-sessuale e pre-chitarra elettrica con Nine Lives. Solo più tardi ascolto (anche con piacere) i loro dischi anni 70. Ignoro qualunque cosa abbiano fatto dal millennium bug in poi.
Gli Aerosmith di Nine Lives
E allora nel 1997, annata dai dischi più o meno imprescindibili, provano ad atterrare anche gli Aerosmith con Nine Lives. I bostoniani ormai di mestiere fanno praticamente gli interpreti: si assicurano i servigi dei più scafati autori e produttori dell’hard rock statunitense, i quali gli forniscono canzoni già scritte (immagino io), e la firma di Steven Tyler e Joe Perry è più che altro di facciata. Questo è quello che dico adesso, che sono più cinico e materialista. Ma per l’allora diciassettenne di Via Boston questo discorso non esisteva proprio.
Ricordo altre sensazioni, ma prima c’è da sottolineare l’importanza della ballad nel genere hard rock. Basta leggerla la parola ballad per vedere com’è elegantemente quasi speculare e falsamente palindroma e sottesa all’idea di un percorso che si completa, un cerchio che si chiude, un capriccio che si soddisfa. Perché l’hard rock è molto bello e capriccioso e ci piacciono i chitarroni, i riffazzi e gli urlacci, ma poi è la ballad che concretizza, che esce come singolo, che batte cassa.
Prima che mi dimentichi, prendo appunti per argomenti che meritano di essere approfonditi con un articolo a parte:
- L’importanza della ballad nel genere hard rock
- I tre videoclip degli Aerosmith con Alicia Silverstone
- Perché il 98% dei musicisti hard rock americani hanno origini italiane
Ora possiamo continuare.
Orecchiabili spinti
La premessa, insomma, è che un disco hard rock senza la tenera ballad è come un cornetto senza la punta di cioccolato. Ma in Nine Lives praticamente tutte le canzoni sono ballad. O meglio, alcune sono per metà ballad per metà qualcos’altro. I power chord si confondono con trovate melodiche piuttosto alate e barocche. Lungo, lezioso, vanesio, pieno di arrangiamenti, un album molto pop ma un po’ sostenuto. Un disco per vincere facile, certo, ma facendo goal solo con colpi di tacco o punizioni all’incrocio.
Nella cameretta di Via Boston, in effetti, funzionano bene i colpi di tacco e le punizioni all’incrocio, tipo “Taste of India” col sitar e le scale simil-indiane, “Ain’t that a bitch” che ammicca con la tromba silenziata, “Kiss Your Past Good-bye” che forse è ferro o forse è piuma comunque ha quel non so che.
Ma il diciassettenne è già troppo stanco e anziano per gli orecchiabili più spinti come “Full Circle”, ballad terzinata (ah! La tradizione delle ballad terzinate degli Aerosmith), e la stessa megahit “Hole In My Soul”, con il suo videoclip per teenagers di cui ricordo solo l’assenza di Alicia Silverstone.
La particolarità inspiegabile di questo disco sono le tante canzoni che si chiamano “fall…” qualcosa. Abbiamo “Falling in love” (is so hard on the knees, bella), “Fallen Angels” (pataccone finale, fuffa), “Falling Off” (inutilmente cantata da Joe Perry), “Fall together” (solo nell’edizione giapponese, mai sentita).
Per il resto, i più si ricorderanno “Pink”, la canzonetta più birba.
La verità
Difficile dire perché mi prendo a cuore proprio Nine Lives. Forse perché è l’unico album di questi tempi che compie 20 anni ma non ne parlerà nessuno, non ne scriverà nessuno, non verrà rivalutato, non verrà ristampato con le bonus track, anzi l’ho trovato in offertissima a 4,99 da Mediaworld mentre cercavo una roba per il computer. Che tristezza, vero?
Ma la verità è che mi sono arreso. Per tutti questi vent’anni non ho mai trovato la “copertina sbagliata” di Nine Lives: da quando l’hanno ritirata dai negozi l’ho vista soltanto nella cameretta di un mio amico, che invidio. Ecco, vedi? Il vero fan degli Aerosmith possiede quella chicca perché ha comprato subito la sua copia, e il superficiale no. Il problema è che quando non riesco ad acchiappare una copertina sbagliata sento un vuoto dentro, ed è per quello che ora sto più attento.
Quindi mi tengo la copia comune, e che mi serva di lezione per la prossima vita. Ho anche un cd singolo di “Full Circle” che sembrerebbe smentire quanto detto poc’anzi sull’orecchiabile spinto. Ok, preso con le mani nella marmellata…
“I don’t want to miss a thing”, in assoluto la canzone più usata ai matrimoni!
Non sono mai stata una grande fan degli Aerosmith…li avrò sempre sottovalutati sbagliando?
Ecco, “canzoni usate ai matrimoni” è un’altra buona idea che mi devo segnare