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Pop Rock

Free as a bird machine

È più forte di me, ogni volta che ascolto musica “postuma” inedita – un album o una raccolta o anche solo una canzone uscita dopo la morte di una qualsivoglia rockstar deceduta anzitempo – mi faccio sempre la stessa domanda: 

Per l’artista sarebbe stato ok pubblicarlo così? 

Voglio dire: l’artista avrebbe approvato quella versione che è uscita dopo la sua morte? Avrebbe tollerato che parenti e amici e conoscenti ficcassero il naso tra le sue cose e tirassero fuori qualche scarto da gettare sul mercato? Avrebbe sopportato che mani che non sono le sue manipolassero e scegliessero e modificassero le sue registrazioni senza il suo permesso? Oppure avrebbe pensato di loro la stessa cosa che il mondo intero pensa in questi casi ovvero “l’hanno fatto per tirare su un po’ di soldi” e li avrebbe maledetti per l’eternità rivoltandosi tipicamente nella propria tomba?

La musica che amo è un’incredibile expo di morti eccezionali, le più brillanti, le più sfortunate, le più misteriose, le più banali. Quale che sia la causa, ognuna è avvolta da un’aura di costernazione, di rispetto, di sacro, perché il rock è una religione come il cristianesimo o l’islam. Io non so se sono condizionato dall’educazione religiosa in religioso Stato, ma quando ascolto la musica di un morto, ci penso eccome, che è morto. Come è morto, quando è morto, se ricordo cosa stavo facendo quando ho saputo che è morto. Tutti, nessuno escluso, lo pensiamo a livello subliminale, che quel tale di cui stiamo ascoltando la voce è morto.

Non solo, io sono capace anche di farmi degli scrupoli: infatti mi pongo sempre la domanda di cui sopra, scritta in grassetto, proprio perché la penso bella chiara in grassetto.

Quando ero piccolo e ho sentito la voce di Lennon in una “nuova canzone dei Beatles”, Free as a bird, ero felice perché c’era in giro una nuova canzone della mia band preferita, ma se oggi devo essere obiettivo mi sento vagamente in colpa anche solo ad ascoltarla, perché sono sicuro che John Lennon avrebbe profondamente odiato e maledetto e ostacolato in ogni modo la mccartneyizzazione di un suo pezzo. Quando ho sentito Made in Heaven dei Queen ero felicissimo perché, non so perché, l’album trasmetteva davvero una disperata voglia di vivere; solo anni dopo scoprii che Freddie Mercury registrava ogni giorno, ogni momento, ogni volta che poteva per sfuggire alla morte imminente, e credo che avrebbe amato il disco postumo che i compagni sono riusciti a tirare su, o almeno avrebbe apprezzato lo sforzo. Quando è uscita You know you’re right, canzone quasi-inedita dei Nirvana, non ho pensato a nulla, lascio inferire ai più esperti di me se Kurt Cobain sarebbe stato favorevole o no. Quando è uscito Lioness: Hidden Treasures di Amy Winehouse l’ho anche comprato, ma era più una compilation con registrazioni differenti, cover, e poche cose inedite; probabilmente alla cantante inglese di tutto ciò sarebbe fregato poco. 

Ho ammucchiato un po’ di esempi famosi, possiamo aggiungerne altri più squisitamente indie, comunque ciò che volevo dire è che nutro quasi questo timore religioso che l’artista morto ci guardi dall’alto di lassù e ci giudichi. Molto cattolico tutto ciò, vero? Guardate anche voi dentro al vostro cuoricino, chissà se fate dei pensieri simili, non è necessario che me lo dite ma secondo me sì.

Parlando di affari più terreni, la scena che mi immagino è la stessa per tutti. Un nastro in uno scaffale, un cd in una bustina, un file in una cartella, un foglio in un quaderno, una cassetta in un cassetto. Raccolti intorno a questa magra eredità del caro estinto, compagni di band, famigliari, ex mogli, ex mariti, ex amanti, vecchi amici, amici dell’ultimo momento, soci in qualcosa, tutori di qualcuno, avvocati, discografici, parolieri, cercano di mettersi d’accordo su cosa diavolo fare per rendere questi quattro stracci un dignitoso album postumo. Alcuni produttori e musicisti e vecchi collaboratori vengono chiamati a dare una sistemata sonora a bozze, demo e provini per renderli pubblicabili secondo l’estetica del tempo. Sì, ma quale tempo, quello di un tempo, o quello di quando l’album uscirà? All’inizio ci si pone anche questioni di questo tipo, pura lana caprina, ma quando ci si accorge che il tempo passa e non è ancora pronto niente, ci si abitua al fatto che va bene pubblicare un po’ tutto così com’è. Basta che esca. Basta che respiri. Basta che sembri vivo. 

In questi giorni di settembre 2023, come gli esperti indie avranno già capito scrollando velocemente questi paragrafi pensando “e allora accidenti, quand’è che parla dell’album postumo di Sparklehorse?” sto ascoltando l’album postumo di Sparklehorse. Ovvero di Mark Linkous, che si è tolto la vita nel 2010, e che aveva lasciato nel cassetto una collezione di canzoni che tredici anni dopo ascoltiamo per la prima volta*. Mi sono fatto gli scrupoli di cui sopra, ho cercato di qua, ho letto di là: all’epoca del suicidio le canzoni erano (sembra) praticamente pronte e quindi le sentiamo nelle versioni che presumibilmente il cantautore americano aveva in mente di pubblicare. Persino la scaletta era già decisa, compreso il titolo: Bird Machine. Ciò che hanno fatto il fratello Matt Linkous e la cognata Melissa Moore, membri della band e supervisori della pubblicazione, è stato chiamare alcuni passati collaboratori di Mark per prendere quelle registrazioni (alcune fatte da Steve Albini, alcune fatte dallo stesso Mark a casa) e ottimizzarle per renderle pubblicabili. Nei credits relativi alla produzione figurano Alan Weatherhead (registrazioni e produzione), Joel Hamilton (mix), Greg Calbi e Steve Fallone (mastering).

E quindi, ibernato nel 2010, liberato nel 2023, che effetto fa oggi Bird Machine?

Mi ha fatto un effetto bello ma strano. Cioè, strano ma bello. È completamente stile Sparklehorse, con la sua voce sussurrata e nascosta e confusa tra doppiaggi ed effetti quasi per nascondersi, per non disturbare, per non fare male a nessuno. Si ritrova il suo surreale universo, quello che ha raccontato in quindici anni di canzoni, un universo fatto di uccelli, cavalli, animali, laghi, fantasmi, denti, unghie, cose di metallo, caos delle stelle, Captain Howdy, e tutte le immagini che ricorrono diverse volte nei testi più disparati, e che rappresentano imperscrutabilmente le metafore di qualcuno, qualcosa, chissà chi chissà cosa, della sua riservata e quotidiana vita. Si riassapora lo stato dell’arte del gusto indie americano di inizio millennio, con il suo tono profondamente dimesso, benché Mark Linkous non si sia mai limitato a questo, al contrario, regolarmente apriva con delicatezza la finestra alla speranza di accogliere uno spiffero di luce e momentanea felicità (ma evidentemente veniva solo buio e tristezza cosmica). Si riabbraccia la purezza della sofferenza, della fragilità, della sconfitta, comunque purezza.  

Fin qui l’effetto bello; ora l’effetto strano. Potrei dire che suona graziosamente agé, ma se devo dire la verità, suona incredibilmente vecchio, non abbastanza vecchio da essere classico, non abbastanza recente da suonare decente nell’era dei suoni netti, brevi, glabri. Non ha ancora un posto stabile questa musica di genere post-anni novanta, che ha rappresentato la lunga cenere dell’incendio grunge, e si è ormai quasi tutta spenta e dispersa nell’aria. Ed è come se non fosse mai esistita, comprata, cliccata, vissuta. Sembra musica per nessuno, oggi, se non per i familiari al mondo di Mark Linkous. Tra i quali sinceramente nemmeno io mi potrei ascrivere, visto che – pur ammirandolo – ammetto di averlo trascurato per lunghi periodi. Ma ascoltando certe canzoni si rianima la brace, certi tizzoni riprendono a luccicare, e un debole calore si spande per la stanza. I mille fantasmi di Sparklehorse tornano a suonare per una notte, cadremo in un sonno stellato, domani ci sembrerà tutto un sogno.

Proprio perché suona così fuori posto, Bird Machine è più bello uscito oggi che uscito tredici anni fa. Questo assurdo ritardo è parte del suo fascino. È quel tipo di album che mi fa venire voglia di riprendere in mano quelli di una volta e riascoltarli in fila. Non perché sono meglio quelli là, ma semplicemente perché ascoltare musica postuma ti porta a viaggiare con l’immaginazione, distrarti, spostare l’attenzione dal pezzo singolo alla discografia tutta. Dall’arte all’artista. Dalla vita alla morte.

…a proposito non voglio insistere ma anche per questo torno a chiedermi:

Per l’artista sarebbe stato ok pubblicarlo così? 

La risposta inevitabilmente è: che ne so. Cari amiche e care amici, anche stavolta non abbiamo risolto niente, ma almeno ci siamo fatti una bella chiacchierata su musica, morte e tristezza. It will never stop!

* Non proprio tutte per la prima volta, poiché una versione di Daddy’s Gone (cantata insieme a Nina Persson dei Cardigans) era già apparsa nell’album pubblicato con Danger Mouse Dark Night Of The Soul, e Listening to the Higsons è una cover di Robyn Hitchcock.

Di solito come foto in evidenza non amo mettere la normale copertina dell’album. Preferisco mettere un’immagine mia, fatta da me, non importa se è troppo brutta o artigianale. Ma più artigianale della copertina di Bird Machine non si può, e allora per stavolta può andare bene la scritta scribacchiata da Sparklehorse, che immagino infilata a mò di etichetta nella bustina del cd ritrovato.

Qui Instagram, che come diceva Winston Churchill è la peggior forma di social eccezion fatta per tutti gli altri sperimentati finora.

Paolo Plinio Albera

Muovo i primi passi falsi nella musica scrivendo canzoni.
Trovo quindi la mia strada sbagliata nella scrittura e nella creatività.
In poco tempo faccio passi indietro da gigante, e oggi ho un blog: il MySpiace.

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2 commenti

  1. 1. Bisogna vedere a distanza di anni quanto viene considerato il disco postumo nella discografia di un artista, a meno che non sia uscito solo quello.
    2. Se si fosse rispettata la volontà di Kafka i suoi scritti e pure i disegni sarebbero stati distrutti.

    1. Questa cosa di Kafka non la sapevo. Non posso dargli torto perché era tutto opera sua, ma non posso dare torto neanche all’amico che li ha conservati e poi pubblicati… hanno ragione tutti!

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